“giovedì 21 maggio 2015. La prima volta che è successo era un giorno come tanti. Ma mi sentivo scoppiare. Fuori dal bagno c’era il mondo che mi rifiutava, la scuola che diventava più difficile e mi faceva sentire sempre più stupida e più fallita, i miei genitori che mi stavano addosso e non mi lasciavano respirare, mi controllavano di continuo e mi tartassavano di domande, ma non mi guardavano mai negli occhi presi com’erano da loro stessi e dalle loro cose, non si accorgevano di quanto stavo male… e lo specchio mi rimandava l’immagine di quella me che stava crescendo, sempre troppo diversa da ciò che avrei voluto essere, una trasformazione in cui non mi riconosco… il dolore ad un tratto è diventato insopportabile, ma le lacrime, stavolta, non servivano. Piangere non bastava più. Ed è allora che l’ho vista. Innocua, lucida, tagliente. Senza rendermene conto ho preso la lametta in mano… e lentamente ho cominciato a tagliarmi. Ho premuto poco, avevo paura. Un momento di dolore, esce una lacrima e poi… ecco il sangue, mi ipnotizza. Ecco il sollievo… come se avessi aperto una valvola insieme al sangue esce dal mio corpo il dolore che mi avvelena. Faccio attenzione a non sporcare nulla, pulisco la ferita con il cotone e nascondo ogni traccia. Non voglio che i miei mi vedano. Soffio sulla ferita, sta già chiudendosi. Diventerà cicatrice, sarà il ricordo di una battaglia, segno del mio dolore. Mamma mi chiama per il pranzo. Fa caldo oggi, ma tiro giù le maniche della maglietta. Nessuno deve vedere, nessuno deve sapere. Esco dal bagno. Eccoli, come sempre. Lei in cucina, lui che guarda la televisione. Comincia la solita raffica di domande. Mi stanno addosso, ma non mi sono mai stati accanto. Se solo mi guardassero negli occhi… ma non lo fanno. Sulla maglietta c’è una macchiolina di sangue. Se ne accorgerà mamma? Forse, o forse no, farà finta di non vedere, come sempre. Mi metterei a urlare, se servisse a scuoterli! Lo sguardo di mio padre mi trapassa. Lui si ricorda di me quando devo occuparmi di mia sorella, o per i miei problemi scolastici. E per paragonarmi alle figlie degli amici. Sto di nuovo male. Non riesco a pensare ad altro che alla lametta, pericolosa ossessione. Mi sa che più tardi mi taglierò di nuovo.”
Questa è la ricostruzione dei racconti che da circa un anno mi capita di sentire da pazienti che praticano il cutting, una forma di autolesionismo tramite cui i ragazzi cercano sollievo dall’ansia e dal dolore graffiandosi o incidendosi la pelle di gambe e braccia con lamette, temperini e altre superfici taglienti. So per certo che molti adulti e giovani genitori ignorano l’esistenza di tale fenomeno o lo riducono a moda passeggera o fenomeno culturale. Purtroppo, negli ultimi anni il cutting è diventato un problema che ha messo all’erta psicologi e psichiatri come nuova emergenza del disagio sociale.
Nel 2014 una ricerca di Repubblica ha rilevato che questo fenomeno interessa 200.000 adolescenti, di cui il 90% sono ragazze tra i 13 e i 16 anni (ma nella mia esperienza anche 12, e il fenomeno è in aumento tra i maschi). Nel 70% dei casi è una forma di disagio relativa all’età, ma nel rimanente 30% tende a cronicizzarsi in concomitanza con problemi depressivi o legati alla sfera dei disturbi alimentari o al disturbo borderline. Si assiste anche alla condivisione delle esperienze e dei selfie con i tagli sui social network, all’emulazione (“se la mia amica ha provato questa cosa e funziona per stare meglio per un po’, forse farà bene anche a me”). Solo una minima parte di chi si taglia chiede aiuto, e solo quando si ha la sensazione di perdere il controllo o se qualche ferita s’infetta.
Perché tagliarsi? Una ragazzina lo fa perché si sente talmente sola e invisibile, e tenta di “sentirsi esistere” tramite il bruciore della ferita e la visione del sangue, cercando di lanciare contemporaneamente un segnale d’allarme talmente drammatico che potrebbe far svegliare i genitori distratti, troppo presi dal lavoro o dal bisogno di “vivere la loro vita” per accorgersi del dolore del figlio. Se i genitori la ascoltassero, la guardassero, forse coglierebbero qualcosa. Ma spesso questi ragazzini sono lasciati a se stessi, e quindi il gruppo dei pari diventa l’unico mondo possibile dove ci si trova anche a condividere selfie coi tagli ed esperienze di dolore, sicuri di essere ascoltati, accolti e capiti. Il tempo passa, le cicatrici diventano segni chiari sulla pelle, a cui altri si sovrappongono. Per non dimenticare. Il corpo tagliato racconta una storia.
I segnali, la sfida, la richiesta. Maniche lunghe in giornate caldissime, il rifiuto di indossare abbigliamento estivo e il costume, strane tracce di sangue, lunghissimi minuti chiusi in bagno, promemoria per ricordarsi di comprare le lamette, temperini per matite rotti nella spazzatura… e poi, la prova regina: le cicatrici, i segni. Sono indizi di cutting, indizi di una sfida che il figlio lancia al genitore: “Avvicinati e guardami, ti prego. Vediamo se lo capisci.”
La scoperta è sempre drammatica e dolorosissima, la famiglia entra in crisi. La reazione più normale è la rabbia dei genitori, rabbia che maschera dolore, impotenza e paura. Per un genitore è un pugno allo stomaco. Chi si taglia non farebbe mai vedere le cicatrici, la loro scoperta è motivo di vergogna per questi ragazzini, ma anche di turbamento: “Ora che succederà?” Contemporaneamente i genitori si chiedono: “Dove abbiamo sbagliato? Come abbiamo fatto a non accorgercene? Ora che si fa?”
Queste sono state le domande che hanno portato, ormai diversi mesi addietro, una famiglia nel mio studio. Il mio primo caso di adolescente che si tagliava. Da allora ce ne sono stati altri, e ogni volta è stato un lavoro davvero impegnativo. Ma, ogni volta, portato a termine con successo. Ogni volta, il passaggio dal sintomo muto alla comunicazione fluida delle emozioni è stato il risultato di una forte messa in discussione di famiglie che hanno ricominciato a guardarsi, ad ascoltarsi, si sono fermate. E poi sono ripartite insieme.