In quest’articolo proverò a ragionare insieme a voi, su quale senso abbia scrivere di simboli e riti in un mondo che sembra avere come unici interessi l’apparire, il denaro, il potere e la sua arroganza.
Che senso ha riflettere su temi quali la morte, la vita e la rinascita del tempo in una società mossa da un’assurda e pericolosa convinzione che si debba essere ogni giorno positivi e propositivi in uno slancio continuo di vitalità, forza e vigoria. Ci preoccupiamo di durare in eterno, in forma e sempre giovani, ma se l’uomo si rende immortale non c’è inizio, non c’è fine e non può esserci rinascita.
Chi di noi ha notato che, per riferirsi alla morte, si usino frasi come “ci ha lasciati” o “non è più con noi” come a voler forzatamente evitare l’uso della parola morte? La morte come tabù.
Eppure in un tempo non troppo lontano, le società contadine conoscevano la stretta relazione tra vivi e morti e per tale motivo ne favorivano lo scambio attraverso feste e banchetti propiziatori.
«Si nun vennu li morti, nun caminanu li vivi» sostiene proprio l’idea che i vivi hanno bisogno dei morti per difendere ciò che è stato seminato e proteggere i raccolti.
Racconta il maestro Camilleri, in storie quotidiane, che durante la festa dei morti, i bambini cercavano per casa i regali lasciati e siccome “i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente e bisognava cercarlo casa casa”.
Scrive ancora I. Buttitta, in La festa dei morti in Sicilia, che durante la festa dei morti, venivano donati ai bambini dolci antropomorfi chiamati pupi di tsùccaru il cui scopo era quello di consolidare il rapporto tra vivi e morti.
In Sicilia, la festa dei morti, si festeggia la notte tra l’1 e il 2 di novembre: era consuetudine mettere delle ceste di vimini sotto il letto, sperando che durante la notte i morti lasciassero i cimiteri per riempire le ceste di giocattoli e dolciumi, tra i quali la frutta martorana. Il nome di questa preparazione, si dice derivi da una nobildonna palermitana, Eloisa Martorana, che fondò a Palermo, alla fine del XII secolo, il convento di Santa Maria annesso alla chiesa San Nicolò dei Greci e che prese il nome “della Martorana” in suo onore.
Un bizzarro episodio si lega a questa vicenda: nell’estate del 1535, l’imperatore Carlo V in visita nella città di Palermo, chiese di mangiare della frutta, ma purtroppo, in quel periodo dell’anno gli alberi ne erano poveri, e le suore della martorana decisero di utilizzare la pasta reale per riprodurre fedelmente la frutta mancante, fissandola agli alberi in modo che potesse sembrare del tutto uguale all’originale.
Ho deciso di scrivere un breve articolo sulla festa dei morti per richiamare l’attenzione dei lettori e delle lettrici su un aspetto che ritengo centrale: rinnovare il temo del mito che con la sua forza rigenerante può riequilibrare la caducità del tempo che stiamo vivendo.
Mala tempora currunt sed peiora parantur
Riferimenti bibliografici
BUTTITTA I., La festa dei morti in sicilia, in Id., Ideologie e folklore, Flaccovio, 1971: 49-62
CAMILLERI A., Storie quotidiane, Oscar Mondadori, 2008